Congo, la guerra infinita (parte terza)

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26/02/2018   06:35

Per gli organismi umanitari internazionali è difficile dimostrare che in Congo la guerra ci sia ancora. Infatti, l’ultimo rapporto dell’UNHCR parla di «più di 12.000 casi di violazione dei diritti umani nella provincia di Tanganyika e nell’area limitrofa di Pweto», classifica le azioni di guerra – episodi di violazione del diritto di proprietà incluse estorsioni, saccheggi e distruzioni, e i circa 4.700 casi di abusi fisici, torture, uccisioni, arresti arbitrari, lavori forzati, stupri e matrimoni forzati -  come reati, violazioni dei diritti umani. Tra le vittime c’era una maggioranza di bambini, di donne, di persone anziane e di malati che non rappresentavano alcun pericolo per i belligeranti, eppure essi soffrono, e muoiono, in “una guerra a pezzi” combattuta senza i carri armati. Perciò l’UNHCR non può che appellarsi alle autorità congolesi affinché protegga la vita e i diritti della popolazione civile e mette in campo ogni risorsa possibile per fronteggiare l’emergenza umanitaria. Le organizzazioni che si occupano di Diritti umani accusano i governi degli Stati Uniti e del Regno Unito di voler indebolire l’influenza francese nella regione orientale sostenendo l’attuale Presidente del Ruanda Paul Kagamé, eletto per 3 volte negli ultimi 17 anni, responsabile dell’invasione del Rwanda nel 1990. Per questi motivi ancora non si è aperta alcuna inchiesta su Kagamé. Ruanda e R.D. del Congo hanno sostenuto direttamente i ribelli impegnati nei combattimenti nella provincia orientale a Nord di Kivu, violando l’embargo Onu sulle armi. Stando a quanto si legge nella bozza del rapporto Onu del 2010, il Ruanda aveva fornito armi e bambini-soldato ai ribelli Tutsi guidati dall’ex generale Laurent Nkunda, mentre le truppe regolari del Congo avevano garantito aiuti ai miliziani Hutu delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr). L’Onu accusava le autorità di Kigali di aver fornito a Nkunda equipaggiamenti militari, avergli consentito di lanciare attacchi dal territorio ruandese e concesso l’uso del sistema bancario nazionale. La pubblicazione del rapporto dell’Alto-commissariato Onu per i Diritti umani gettava luce  realtà sul genocidio della popolazione Hutu, compiuto tra il 1993 e il 2003. «Se questi massacri commessi su grande scala non vengono puniti, la regione dei Grandi Laghi Africani sarà condannata a vivere nuove atrocità», avvertiva Reed Brody che, nel 1997-1998, aveva già svolto indagini per conto dell’ONU su questi crimini. Il documento avanzava l’opportunità di costituire un tribunale misto internazionale, indipendente dal sistema giudiziario congolese (come quello esistente in Sierra Leone) o di camere miste specializzate, integrate alla magistratura nazionale, che potesse risolvere i dubbi dell’Onu circa l’imparzialità del governo congolese il quale, attraverso il Ministro della Giustizia, Luzolo Bambi, aveva annunciato che fosse in corso l’attuazione di un progetto di legge «per creare delle camere specializzate in seno alle giurisdizioni congolesi» composte unicamente da magistrati nazionali. Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Right Watch, esortava i paesi occidentali a porre fine a quel loro silenzio complice che ha coperto e favorito decenni di crimini e di violenze inter-etniche: «I governi del mondo hanno mantenuto il silenzio quando centinaia di migliaia di civili non armati venivano massacrati in Congo. Oggi hanno la responsabilità di assicurare che sia resa giustizia», aggiungendo: «Questo documento va al di là di un semplice rapporto storico». Roth denunciava che «In Congo, numerosi crimini commessi contro i civili e descritti nei rapporti dell’Onu, continuano ancora oggigiorno, favoriti da una cultura di impunità. Per mettere fine a questo ciclo di violenze, sarà essenziale la creazione di un meccanismo di giustizia incaricato di trattare i crimini del passato e del presente». Il documento Mapping human rights violations 1993-2003, è  invece frutto di una lunga inchiesta sul territorio avviata dopo il ritrovamento di tre fosse comuni nel Nord Kivu, alla fine del 2005. Dal momento della sua pubblicazione ufficiale, avvenuta nell’ottobre del 2010, i governi internazionali si interrogano sulle soluzioni, mentre diverse organizzazioni umanitarie non governative sono già presenti sul territorio per prestare aiuto alla popolazione e agli sfollati. Il WWF, per esempio, impegnato già in una battaglia per la salvaguardia del patrimonio ambientale, si è impegnato nella difesa delle risorse della foresta di Goma; il Centro Don Bosco di Ngangi, in collaborazione con l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati, ha avviato da tempo un progetto di sostegno alle bambine e alle ragazze vittime della violenza sessuale e continua a lottare in nome del diritto all’istruzione e all’educazione dei bambini.
La scuola Don Bosco di Ngangi accoglie bambini/giovani da 0 a 16 anni offrendo loro diversi tipi di ospitalità a seconda dell’età, della situazione familiare e del livello di povertà. La Caritas italiana e altre associazioni missionarie hanno allestito strutture di ricovero ed assistenza medica per aiutare gli sfollati. Il VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo – www.volint.it/vis/home), tra le tante iniziative, organizza raccolte fondi per sostenere le popolazioni dei paesi delle aree in via di sviluppo. Alla piaga della guerra infatti, anche in Congo, occorre aggiungere quella della povertà tra le prime cause dell’elevata mortalità infantile – 1 bambino su 5 muore prima dei 5 anni, mentre l’aspettativa di vita massima di un adulto è di 57 anni. Ma al di là delle statistiche, l’emergenza umanitaria è davvero grande, in una terra da sempre sfruttata e depredata dai paesi occidentali,  cosiddetti “civili”, in stretta connivenza con i vari regimi; una terra dove per anni si è rimasti insensibili e ciechi delle sorti delle popolazioni locali, costrette a vivere spesso al limite della sopravvivenza, abusate, violentate, schiavizzate. (fine)
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